Come andò che Lorenzo Pacini, artista, trovò un pezzo di legno, che piangeva e rideva come un bambino

Federica Chezzi

C’era una volta…

– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. Ma c’era anche:
1. una vecchia sedia con dei chewingum attaccati sotto
2. una pistola rivestita all’uncinetto
3. delle scarpette inchiodate
4. delle scarpette inchiodate dipinte
5. l’impronta di quello che manca, quello che non c’è più, quello che c’era
6. un nano che piange sangue
7. un bugiardo del cazzo (sì, proprio lui, il pezzo di legno)
8. delle scatolette Campbell’s-lumino da preghiera
9. un soldatino di piombo
10. un mucchio di tele
e molto altro ancora.

Così è la bottega di Lorenzo Pacini, affollato atelier di un artista talentuoso e poliedrico, al quale qualcosa fortunatamente manca: quel deleterio autocompiacimento che porta alla reiterazione. Pacini invece sorprende. Sempre. Un arrovellamento che non trova pace, una maestria nelle tecniche più disparate, ci trasportano attraverso un grande racconto, il cui unico filo rosso è il vissuto dell’artista. Nella sua produzione pittorica il confronto con la grande tradizione è manifesto, le atmosfere sono rarefatte e si spingono fino alla metafisica, più di un’opera evoca il Novecento italiano. La maestria nella definizione dei corpi arriva a ricordare la rigorosa nitidezza dei bianchi e neri di Robert Mapplethorpe (penso al ritratto di Lisa Lyon, col velo bianco che dal volto cade giù fino a terra): i corpi sono belli, ma non è la piacevolezza che interessa gli artisti. Ogni ruga, ogni piega, viene marcata per sottolineare le fitte trame di chiari e scuri, le geometrie nascoste, le curve inedite che quei corpi contorti occultano; contorsioni con le quali, cercando di nascondersi, mostrano le parti più intime; come in una malinconica metafora esistenziale. Con Pacini la bellezza dei corpi va a braccetto con la morte, anzi – a esser precisi – sottobraccio. La porta a passeggio, le calca sulle orbite un cappello, la evoca nelle ali dei suoi angeli terreni, la richiama nel suo piccione a terra, nel maiale spiumato, nel cranio di bubble gum e in quello coi vermi. È una morte carnevalesca, grottesca e ironica, così come del resto è la vita, almeno quella raccontata da Lorenzo Pacini: l’irresistibile carenatura del Chewing-skull, l’essenza della vita naufragata in un eterno ruminare (rimuginare?), il mistero laico della (lana) Vergine, della preghiera a doppio senso e di una trascendenza a incandescenza. Ed ecco la poetica e tenue assenza di “quello che c’era” che, però, deve fare i conti con la macabra iperbole dell’Un-due-tre-stella! e del povero coniglio intimidito. Per non dire del furbo Soldatino di piombo e del Bugiardo del cazzo. Calembours semantici e nominali, ricordi d’infanzia – pezzi di legno che piangono e ridono come un bambino – impigliati nella rete di un artista spregiudicato.

“Adulto? – scriveva Pier Paolo Pasolini – Mai – mai, come l’esistenza /che non matura – resta sempre acerba,/ di splendido giorno in splendido giorno – /io non posso che restare fedele/ alla stupenda monotonia del mistero”.

Lorenzo Pacini, o del Giovannin senza paura

Federica Chezzi

Il Giovannin senza paura di Italo Calvino sentì una voce: – Butto? – E butta! Rispose Giovannino. Dal camino cascò giù una gamba d’uomo. – Butto? – E butta! – e viene giù un braccio. – Butto? – E butta! E cascò un busto e poi anche la testa.
Così immagino Lorenzo Pacini: chiuso nello studio, di notte, che urla – E butta! – e dal camino vengono giù teschi, toraci, cuori e bacini. Tutti i pezzi di un uomo, e un uomo tutto a pezzi. Un’ironia gustosa e talvolta macabra, eppure ostinatamente romantica. E il coraggio non manca: confrontarsi con Eros Thanatos senza scivolare sul bagnato del già detto, non è questione che si affronti a cuor leggero, è proprio roba da Giovannin senza paura.

Titoli e opere, nel lavoro di Pacini, sono strettamente legati tanto che senza il primo la seconda, spesso, non sarebbe completamente leggibile. E così è per Credo che ti amo (2009), puntuale visione della tragicomica sindrome umana dello sdilinquimento amoroso: un’improvvisa tachicardia e quel qualcosa che preme e si gonfia dentro al petto, tanto da far temere per la tenuta della cassa toracica. Una viscera prepotente e incontenibile che per fortuna, sul retro e un po’ nascosta, conserva una piccola valvola di sicurezza per le emergenze! E il metallo è macchiato, corroso, vecchio, quasi fosse il ritrovamento – di un futuro archeologo – dei miseri resti di un povero innamorato, sopraffatto dall’esplosivo desiderio. Ma il vero amore non condivide la triste sorte di un qualsiasi canarino tenuto a forza nella gabbietta ben chiusa. Il vero amore, Come se fosse andato e tornato (2009), è il pettirosso che sceglie di tornare nella ‘gabbia’ amorosa, libero però di andarsene ogni qual volta ne senta il bisogno, svolazzando al di sotto dello sterno. Ancora una volta lo scheletro è arrugginito e scrostato, ma se l’uccellino ancora splende di un bianco puro e di un rosso vivo, vorrà dire che l’amore ancora palpita, nella vecchia carcassa umana. Ancora il rosso carminio del cuore, ancora una gabbia. Stavolta (Scaldami, 2009), però, la gabbia non ha uscite, niente valvole, niente varchi sub sternali; è – piuttosto – un inno alle tradizioni popolari: da una parte il vecchio ‘scaldino’ (al centro della struttura lignea si appendeva un braciere e il tutto finiva sotto le coperte del letto) che racchiude un cuore dal bel vestitino cardioventricolare in calda lana;  dall’altra la romantica convinzione popolare che il cuore sia il primum movens della vita affettiva. Ma avevamo parlato di un Erose di un Thanatos e, infatti, ecco sbucare da una consunta macchinetta distributrice il nostro, temutissimo, bigliettino per l’ultimo giro di desiderata. E par di sentire la voce della Vecchia Signora che da dietro il bancone cigola uno straciscato: –  ‘altrooo?’, e speriamo non sia ancora  arrivato il momento del fatidico ‘nient’altro, grazie’. Che sia, magari, proprio l’attimo successivo alla Situazione imbarazzante (quel che resta del maiale)? Forse no, ma certo è, invece, che il teschio con il pomo argentato in bocca è straordinariamente ricco di eco. Dalle calaveras messicane all’ovvio Hirst, da Gabriel Orozco fino a Gino De Dominicis, passando per Eva e anche per Paride; e – tutto sommato – forse proprio a quest’ultimo maggiormente affine: la mela non va né su né giù, è la classica, grottesca situazione in cui ‘si è rimasti incastrati’. Anche Michael Craig-Martin aveva messo in equilibrio l’acqua dei suoi bicchieri (On the Shelf, 1970), ma Pacini ne fa una questione morale: Né mezzo pieno, né mezzo vuoto (2010). L’equilibrio c’è (l’acqua non esce dal bicchiere) ma il tentativo è quello di deragliare, sensibilmente, dalle opzioni comunemente predisposte. Le opere plastiche di Pacini sembrano insomma invocare lo spirito dadaista e un forte legame con i poveristi concettuali italiani, tra l’ironia di De Dominicis e i materiali espressivi di Jannis Kounellis.

I metalli arrugginiti delle sculture non possono non rimandarci alle lastre ‘sporcate’ dei dipinti a RX. Ancora scheletri ma stavolta dipinti, brani di uomini e di animali scandagliati e accuratamente riprodotti nelle loro più nascoste essenze, che svelano macchie invisibili a occhio nudo, macchie forse metaforiche o forse  fisiche (Amo al contrario, 2006; Dolore 2006). E del passaggio usurante della vita, nei suoi accidenti – o veri e propri incidenti – , raccontano anche gli oggetti degradati o esausti della nostra più sciatta quotidianità: il palloncino sgonfio, una lampadina bruciata, mezzo arancio spremuto, degli slip macchiati; così come lo raccontano le lamiere contorte delle auto ammaccate, abbandonate o incidentate. Oggetti colmi di una malinconica solitudine, ma vivificati dall’ironia dei titoli (Object-End Mutatis Mutandis, 2008). Una straordinaria abilità pittorica, quella di Pacini: facilità nel segno e totale padronanza del colore; ma l’abilità da iperrealista è messa al servizio, stavolta, di un sarcastico disvelamento di piccoli, banali episodi che hanno contraddistinto più di una generazione e che, riproposti dall’artista, si trasformano in visioni esilaranti. Chi, prima del dilagare della fotocamera digitale, non ha accumulato una serie infinita di fotografie dall’inquadratura mancata, nelle quali l’ipotetico protagonista appare solo marginalmente (Due vecchie…foto, 2006)? Chi, almeno una volta, non si è travestito da Zorro a carnevale? Ecco allora un esercito di zorrini (amici e parenti di Lorenzo) fieri e sicuri, spade sguainate, mani sui fianchi, pronti a giurare di fronte all’obiettivo di essere i futuri supereroi. E poi? Chi tra loro sarà divenuto davvero Zorro? I dipinti di Pacini sono quasi sempre immersi in un colore azzurrino, come nei flash back dei film quando il regista vuol farci capire che è un ricordo e non una foto del presente, piuttosto, semmai, una personale radiografia (appunto) del mondo reale.

Nelle pieghe degli usi e costumi sociali si annidano anche le Ceramiche, dove la consueta abilità pittorica di Pacini offre le incredibili – in tutti i sensi – lacrime della Madonna, appaiate a quelle di un simpatico Gongolo e, si spera, altrettanto remunerative. L’appropriazione tipicamente Pop delle immagini più diffuse segna anche la tagliente serie Village People, nella quale la brutalizzazione dei simboli di consumo è irresistibilmente feroce; dalla Susanna dei formaggini ridotta a bambola gonfiabile, ai soldatini che nonostante le pose gloriose finiscono per assomigliare a due ottusi galletti impegnati in infiniti duelli, alla coniglia Greta dall’aria assassina, fino al Birimbo sottomesso a Mickey Mouse, raffigurato di spalle come gli assassini nei migliori film.
Alla serie della donna allo specchio calzerebbe il titolo di uno scritto di Umberto Eco: Il brutto, il comico, l’osceno. E non per disprezzo, ovvio, ma per quei corpi nudi, contorti e spiegazzati; brutti, sì, perché deformati nel riflesso dello specchio o illividiti dal glaciale bagliore bluastro della luce; per quei volti truccati comicamente da clown ma senza l’ombra di un sorriso, per quelle nudità spoeticizzate dal segno marcato del costume o dei calzini, per quegli sguardi assenti mentre le lingue indugiano sugli specchi. E impudiche, vicine cioè all’osceno, potrebbero apparire anche le inquadrature entro cui Pacini inscrive le deformazioni inflitte al corpo della modella, qualora si avverta la loro vicinanza con quelle visioni distorte che si hanno nel momento in cui si sbircia, nascosti, nella lente ingranditrice dello spioncino di una porta (Specchio delle mie brame e fascia rossaElleBlu, tutte 2007). Percepiremo allora queste visioni come immagini ‘rubate’, illecita intrusione nell’intimità di questa donna; così assorta, del resto, da non accorgersi neppure che il suo riflesso si è voltato prima di lei (Guardati, veloce 2007).

I primi piani di PresoTutte le stelle e Il toro ci portano, invece, verso un universo sottomarino, dove sembra di scorgere una sorta di anti-Sirenetta (forse Anghela?), intenta a toccarsi e ritoccarsi questi grandi piedi che vorrebbe abbandonare in favore di una bella coda di pesce. Piovre, tentacoli, meduse: piedi e mani si intrecciano e divengono animali marini.
Nella produzione di Pacini esiste anche, inaspettata, un’esplosione di gioiosa naïveté e candida poesia. Sono le pitture a quattro mani e due teste eseguite con la figlia NOME BIMBA: un immaginario condiviso e frequentato assieme, e quindi fedelmente riprodotto, su tela, da Lorenzo.

E per ultimo, da dietro le nubi, arriverà anche stavolta il Sole contro (2009): ‘chiudi gli occhi e ti fermi, o vai avanti?’, ti chiederà Pacini.

Jean Blanchaert

Jean Blanchaert

Philippe Daverio

Philippe Daverio

Federica Chezzi

Federica Chezzi

Gianni Papi

Gianni Papi

Simona Bartolena

Simona Bartolena

Francesca Barberotti

Francesca Barberotti

Aurelia Nicolosi

Aurelia Nicolosi

Claudio Pescio

Claudio Pescio