In assenza

Francesca Barberotti

Assenza,
più acuta presenza.
Vago pensier di te
vaghi ricordi
turbano l’ora calma
e il dolce sole.
Dolente il petto
ti porta,
come una pietra
leggera.
Attilio Bertolucci

Così. Sì punge dentro al petto. Tutt’attorno avvolge, ma non t’accorgi, mentre vai avanti, nebbia, d’umido illuminata, di pianto ricacciato indietro, dentro gli occhi, di passi che scivolano incerti sotto spinta di un’eco lontana che viene di dentro. Quello che manca, quello che manca, quello che manca. Ombre fuori fuoco, mute sagome di viventi. Quello che a volte siamo. Vivi, in ragione di tutto quello che ci manca. Soli, in virtù di tutto quello che ci manca.
Non so come Lorenzo Pacini sia arrivato lì, ma c’è. C’è sempre stato, a scavare intorno a un ricordo accumulato e protetto, che ora, improvviso, chiede aria. A scavare incapace di sosta, intorno a ciò che ai suoi occhi non basta, la realtà per come appare. Non la accetta, piuttosto la usa, per rovesciarla o attraversarla o trafiggerla. Per interrogarla.
È lì, antagonista, ora meno ignaro, della vita. Che ha chiuso fra parentesi metalliche, di lettere tipografiche. O nel tempo perso, di chewingum stancamente attaccati sotto una sedia. Su un’altra sedia ha incise le parole di uno straziato amore che non poteva essere, se non nella sua assenza. Inchiodata a scarpette di bambino, offesa, in bilico perfetto, la vita immobilizzata in un bicchiere.
Sempre ci manca qualcosa, segno che la vita è lì, e pulsa, e scorre. Nel futuro semplice e infinito di un bambino con i piedi sulla sabbia o di bambina che indaga se stessa, ché mancano ancora i segni visibili della pubertà a schiuderle il domani. La forza prepotente e irresistibile della gioventù, non corrotta di delusione e disincanto. O paura.
La doppia faccia del potere che ruota su se stessa, pavido quel coniglio che rifugge il vero e tradisce lealtà. Le piume cadono, vanità inutile. I corpi spogliati non provocano, lasciano che lo sguardo indugi, lo accompagnano, lo seguono. Il sogno del volo è una piccola morte che Icaro porta con sé o ali di stoffa che non sollevano. La preghiera, che è fiducia, un miracolo nelle nostre mani. L’ovvio non è tale a occhi miopi e supini. Va svelato, rivelato, ché ovvio non è. Fede al neon. Fede prêt-à-porter. Gli occhi, se ci sono, sono sempre aperti.
Lorenzo Pacini, i suoi, non sa chiuderli. A costo di ferirli. A costo di ferirci.

L’ergastolano

Francesca Barberotti

L’ergastolano, alla domanda di come riuscisse a sopportare tutti quegli anni in carcere, di cosa facesse, risponde: «Continuo a ripetermi, sai, che tutto il tempo che passo qui dentro, in fondo dovrei passarlo anche fuori». Peter Bichsel, Tempo.

Che cos’è l’artista, se non un recluso? La sua forza creatrice, non resistibile, è la sua gabbia, la sua dannazione.
Come una lotta fratricida, dove fratello è uno dei tanti sé racchiusi nella gabbia toracica, si consuma ogni volta battaglia. È uno dei tanti sé. Contro uno dei tanti noi.

È uno dei tanti noi. Contro uno dei suoi tanti sé.

Noi. Quel plurale indistinto, ove ciascuno, di sé dimentico, trova il più facile approdo, spontaneo nascondimento in un noi di identità privo.
Sollievo apparente, noi, cui la visione dell’artista tende continui agguati e destabilizza ordini, visioni, appigli a ricercate, necessarie sicurezze, utili sì, a tenersi saldi nel periglioso, fragile, esistere che ci è toccato in sorte. E lì, fra noi, si insinua quell’artista. Il non ossequioso, il non accondiscendente. È lì che ingaggia la lotta, lui sì, solo e senza paura. Con i suoi tanti sé sfida noi. Ci chiama in battaglia, ci suona la sveglia. Ribelle al torpore di quei nostri, tanti, occhi semichiusi. Viene a svelarli, uno a uno. Luce tagliente e dolorosa, le sue opere.

Eccolo lì, Lorenzo Pacini. Ci aspetta. Solo, insieme ai suoi tanti sé.
Si fa fatica a raccoglierlo tutto, ha tracciato tanti sentieri, al primo sguardo paiono anche troppi. Li diresti interrotti. Che cosa ci fanno corpi femminili nudi, intrecciati, contorti o distesi, insieme a un nanetto che lacrima sangue? I corpi sono anche quelli di un coniglio scuoiato, composto sul vassoio di plastica della sua morte da supermercato, o quello di un piccione disteso, come dormiente ignorato, sul selciato. O un soldatino di piombo, dipinto e scolpito, che a ben vedere aveva ripiegata dietro quella gamba che altrimenti sapevamo monca. E le radiografie? Corpi attraversati e restituiti nel loro contenuto comune, di denti e ossa, di articolazioni. Corpi vuoti, nel loro di dentro. Quello che siamo. E poi gabbie toraciche, di alcune sculture ferrigne, con polmoni di camere d’aria o la sagoma di una donna incinta predestinata, la madre di Giuda. Colei senza la quale non si sarebbe compiuto il destino di Gesù. Fino a questo letto, visto dall’alto, su cui si adagia in un lungo sonno la traccia di un uomo dalla storia divina. Stazioni di una personalissima via crucis, in cui Lorenzo Pacini chiede a sé, e a noi, la verità.

Jean Blanchaert

Jean Blanchaert

Philippe Daverio

Philippe Daverio

Federica Chezzi

Federica Chezzi

Gianni Papi

Gianni Papi

Simona Bartolena

Simona Bartolena

Francesca Barberotti

Francesca Barberotti

Aurelia Nicolosi

Aurelia Nicolosi

Claudio Pescio

Claudio Pescio