Quello che manca – galleria Maurizio Nobile – Parigi

Gianni Papi

Lorenzo Pacini è pittore fieramente figurativo. Chi lo conosce sa del suo incessante rovello a raggiungere forme che sempre di più lo soddisfino, che sempre di più raggiungano quella perfezione pittorica che costituisce il suo traguardo. L’opera finale è così il risultato di stesure multiple, di consistenze epidermiche ottenute con l’uso di ripetute velature applicate appena la materia si asciuga, secondo un metodo che non è cambiato nei secoli. La carne dei corpi è alla fine al centro di questi dipinti, la sua raffigurazione è l’assillo che domina il pittore, che vuole renderla per quello che è, per quello che non manca. Manca semmai qualcosa al di fuori di essa, mancano le ali forse, ma la carne c’è, sempre. Una carne fragile (perfetto il titolo di uno dei dipinti), angosciata, esposta, vivisezionata in pose a volte estreme, che spingono i modelli a giochi di equilibrio, a tensioni difficili da mantenere oltre la misura di un provvidenziale scatto fotografico.

Mancano le ali, si diceva. Il tema di Icaro e delle ali attraversa la maggioranza di queste immagini: ali posticce, che non fanno volare, trasformate in bianchi rasi gentileschiani che tengono a terra il pittore con il suo fardello, il suo faticoso operare; rasi bianchi simili a una corolla, o piuttosto a un sudario, da cui emerge (o si adagia) il corpo nudo di una donna; ali perdute, di cui resta solo l’impronta, stanno dietro al corpo virile e muscoloso di un ex angelo, mitemente sottomesso all’idea di non poter più volare. E ancora un Icaro con le ali sciolte al sole, precipitato a terra, spaventato dal suo destino terrestre, è il protagonista della tela già citata, dal titolo Fragile: fragile come un essere umano esposto agli eventi, in perpetua battaglia per conquistare quello che manca. Lo stesso modello – ormai rassegnato alla perdita – riflette, ferito nell’anima più che nel corpo, come un novello Galata nell’opera che ripropone la posa della celeberrima statua dei Musei Capitolini.

L’evidente citazione ricercata dall’artista, mi spinge a individuare altri collegamenti figurativi: il mio mestiere di storico dell’arte e l’approccio filologico che ho nei confronti della materia – da tre decenni applicato soprattutto allo studio del Caravaggio e del movimento che dal Merisi ha preso le mosse – fatalmente sollecita associazioni, scorge rimandi, anche in queste opere così schiettamente contemporanee. Il mio è uno sguardo contaminato da tante tante immagini, queste nuove di Pacini si inseriscono naturalmente in quel flusso; e non importa se il pittore sia stato o non sia stato consapevole di tali corrispondenze. Lorenzo è un artista che cerca i suoi stimoli nel presente, e tende a confrontarsi – specialmente nelle opere che occupano la seconda parte di questo catalogo e che non sono in mostra – con le più ardite sperimentazioni dell’odierna scena artistica. Può essere dunque ancor più affascinante (lo è per me almeno) cogliere quei legami, apparentemente lontani.

Allora resto colpito dalle tangenze che posso cogliere a livello compositivo fra i nudi della medesima modella ritratta in tre pose diverse in Tre te con certe realizzazioni di Casorati (evocato anche nell’essenzialità del bianco e nero di Un po’ scuro, un po’ no), ma ancor più con il famoso Dopo l’orgia di Cagnaccio di San Pietro. Più sottilmente, ma forse ancor più chiaramente, questa immagine mi pare collegarsi col simbolismo tedesco di inizio Novecento, ossessionato dal culto del corpo: in particolare con le tornite immagini femminili contenute nelle incisioni di Sigmund Lipinsky. Senza spostarsi da quel mondo l’implacabile resa dei muscoli (quasi come in un manuale di anatomia) e delle epidermidi maschili, le contorsioni cui sono costretti i modelli e le modelle di Pacini, sembrano avere lontani progenitori nelle visioni dionisiache e fortemente erotiche di Otto Greiner. D’altra parte la componente simbolica è fortissima nelle opere di Pacini, scorre come un fiume sotterraneo, informa di sé ogni dipinto, e dunque tutto si tiene: compreso il tema della morte, che riaffiora costantemente, in un piccione gigantesco, mirabilmente dipinto (un vero pezzo di bravura), in uno scheletro da laboratorio, in un coniglio esposto su un banco di macelleria.

Le corrispondenze con l’universo simbolista non si fermano qui; fin dalla prima visione dell’opera, quando era ancora sul cavalletto in attesa delle ultime stesure, ho colto nell’espressione del modello di Fragile qualcosa di familiare nella storia dell’arte, un’assonanza anche fisionomica nel volto, e quel moto di paura mi era già noto, ma forse diventava terrore in quell’altro caso. Poche riflessioni e si è palesato il collegamento, sorprendente, chiarissimo, con un’opera famosa, il capolavoro di un altro protagonista del simbolismo svizzero: Hodler.

L’uomo nudo protagonista del quadro di Pacini, che si contorce spaventato sembra il pronipote dell’uomo altrettanto nudo (Hodler stesso) al centro della Notte (oggi al Kunstmuseum di Berna), che guarda atterrito l’incombente presenza (forse la Morte) che prende forma sotto la nera coperta distesa sulle sue gambe.

Amore-Libertà VS Morte-Prigione

Gianni Papi

Ho aderito con piacere alla richiesta di scrivere su questo catalogo, pur non essendo un addetto ai lavori per quanto riguarda l’arte contemporanea; ma lo faccio volentieri, per la stima che ho per Lorenzo Pacini e per l’apprezzamento verso la sua opera, che trova in questa mostra una giusta occasione per essere valorizzata.

Numerose sono le linee di ricerca dell’artista – e questa esposizione le documenta sufficientemente -, tutte portate avanti con costanza, con aggiornamenti, con nuove dedizioni, come se egli non volesse rinunciare a nessuno dei temi di cui si alimenta la sua ispirazione. Complice una sorprendente capacità di lavoro, di dipingere, con una tecnica affinata nel tempo che raggiunge il risultato con sicurezza e con una sbalorditiva rapidità esente da errori. Complice anche una salutare modestia, e l’entusiasmo per il proprio lavoro, strappato al tempo quotidiano, realizzato in un angolo privato, in uno spazio tutto per sé, vicino e separato, dove il tempo si ferma.
La pittura di Lorenzo, per la maggior parte dei suoi filoni, rientra nel grande fiume del ‘fotorealismo’ o dell”iperrealismo’, e dichiara apertamente tali riferimenti quando affronta – con taglio personale e con uno sguardo riscaldato da un sentimento di pietà per gli oggetti rottamati e per la loro morte dopo anni di uso – temi classici di quella corrente, come le Automobili pronte per la demolizione, per le quali è d’obbligo il richiamo ai quadri di John Salt. O la notevole serie degli Oggetti,sporcati, contaminati, sgonfi, spremuti, eletti a protagonisti di tele che richiamano certo l’iperrealismo americano,  ma con una visione in qualche modo più lirica e ‘solidale’, che è il tratto distintivo di Lorenzo. Oggetti che hanno avuto una vita, che sono ‘serviti’, che portano su di sé le tracce dell’utilizzo (la biancheria intima di Mutatis mutandis, il palloncino rotto dell’Ora d’aria, la valvola fulminata di Tensione), che lo sguardo dell’artista presenta con una partecipazione dolente, collocandoli su una sorta di sudario bianco, sporcato anch’esso e illuminato da una luce al neon. La stessa partecipazione che Lorenzo mette nella rappresentazione di uno dei sentimenti che gli stanno più a cuore, quello della libertà, che si trasforma in ‘respiro’, possibilità di ‘respirare’, di alimentare il cuore (Credo che ti amo ne è forse l’esempio più sintomatico, con quella camera d’aria quasi palpitante, rinchiusa nella gabbia toracica).

Mi piace poi sottolineare la raffinatezza di pensiero e di esecuzione espressa dal pittore nella serie delle Ceramiche che piangono, che possono trovare vaghi riferimenti ‘storici’ nelle Macarene di Audrey Flack o nelle Ceramiche di David Parrish, e certo ancora prima nella Pop Art, ma tali ascendenti (ammesso che l’artista li abbia tenuti presenti) sembrano alla fine lontani da questi primi piani ravvicinatissimi, da questo rigoroso monocromatismo azzurrino, che dichiara anche una severità formale, una sorta di redenzione del kitsch, ottenuta per sottrazione rispetto ai rutilanti e fantasmagorici esempi degli iperrealisti appena citati.
Lo stesso rigore, e la stessa scelta sottrattiva, caratterizzano pure la serie denominata Village People, con giocattoli per bambini raffigurati in dimensioni ipertrofiche (i soldatini in miniatura diventati macroscopici), come essenziali protagonisti delle tele, dove il pur brillante cromatismo si riduce al massimo a tre colori: una riflessione del tutto personale sul mondo dei giochi e dell’infanzia, aliena da ogni intento di rappresentazione kitsch, ben distinta da quella che anima le sfolgoranti e plastificate superfici dei Giocattoli di Charles Bell e di Glennray Tutor.

L’infanzia e il suo mondo, con le foto ricordo scattate da bambini e la nostalgia che ancora si prova a guardarle, è ancora al centro della serie – una fra quelle che io amo di più – delle Zeta: dipinti ispirati appunto a fotografie di Carnevale con al centro un bambino mascherato da Zorro, che era forse la maschera più in voga quando Lorenzo era bambino (e anche quando lo ero io, sebbene abbia qualche anno in più di lui), per il successo riscosso da una serie indimenticata e ripetutamente replicata di telefilm proposti dalla TV dei ragazzi di allora (almeno dei miei tempi). Queste immagini hanno un fascino particolare, mirabilmente sospeso fra un sentimento ‘caldo’ di nostalgia e il senso di straniamento – ambiguo e un po’ inquietante – della mascherata, tenuto a bada però proprio da quell’imprevedibile quid di elegia e di sorridente malinconia per le cose perdute, che hanno fatto respirare le nostre vite, che i ragazzini Zorro dei quadri di Lorenzo emanano. Al pari di quegli oggetti sporcati, delle Madonne che lacrimano, dei cuori caldi di lana che riscaldano un vecchio ‘trabiccolo’, della carcassa di un vecchio Squalo Citroen, delle contorsioni di corpi magri che intrecciano mani e piedi alla ricerca di un amore-libertà che li preservi da quello che per Lorenzo è il suo opposto: la morte-prigione.

Jean Blanchaert

Jean Blanchaert

Philippe Daverio

Philippe Daverio

Federica Chezzi

Federica Chezzi

Gianni Papi

Gianni Papi

Simona Bartolena

Simona Bartolena

Francesca Barberotti

Francesca Barberotti

Aurelia Nicolosi

Aurelia Nicolosi

Claudio Pescio

Claudio Pescio